Percorrendo la Riviera Berica, pochi chilometri a sud di Vicenza, un campanile alto e aguzzo annuncia Lumignano, importante frazione di Longare che lega la propria fama fin dall'antichità alla coltivazione del pisello (Pisum sativum). A introdurla furono, a quanto pare, quegli stessi monaci Benedettini che intorno al Mille bonificarono la bassa pianura vicentina. E qui, ai piedi delle rupi che imbiancano il versante orientale dei Colli Berici, il dolce legume venuto dal Medio Oriente trovò un habitat ideale.
La composizione del suolo e il clima, favorevolissimo per l'esposizione ma anche per il riverbero delle rocce, permettevano una produzione tanto precoce da essere richiesta dai Dogi di Venezia per il banchetto della festa di san Marco, il 25 di aprile. Le ceste, caricate sui burchi (barche da trasporto a fondo piatto) che discendevano il Bacchiglione, rappresentavano il piccolo tesoro e l'orgoglio della gente del luogo. Era una coltivazione remunerativa ma faticosissima perché per sfruttare le esposizioni migliori si arrivava a coltivare fazzoletti di terra nei punti più scoscesi, costruendo terrazze, le 'masiere' o 'banchette' del parlar comune, con muretti a secco e portando tutto a spalle, con le gerle, anche il concime.
Il premio era un prodotto di ineguagliabile delicatezza al palato che sublimava nel più caratteristico dei piatti primaverili, risi e bisi, più minestra che un risotto, semiliquida e ricca di piselli come vuole il detto «ogni riso un biso».
Per prepararla si partiva da un 'desfrito' di lardo o pancetta battuti con cipolla e prezzemolo. Poi si aggiungevano i piselli con acqua e brodo fino a cottura, infine si aggiungeva il riso. Un piatto semplice, che però non mancava mai nei banchetti delle tante dimore nobili della Riviera, come una memorabile cena dai D'Aremberg a Costozza, bagnata da pregiatissimi vini. E chissà, forse anche tavole tanto aristocratiche non avrebbero disdegnato la gustosa variante in uso nelle case contadine, risi e bisi con l'oca in onto, ricorrendo per l'occasione alla carne messa via in inverno nel suo grasso.
I piselli, ovviamente si preparavano anche in "técia". Non occorreva lessarli: aggiunti al soffritto, magari con un po' di pomodoro o di conserva, li si lasciava 'pipare' su un angolo della stufa con la pentola quasi del tutto coperta, aggiungendo un po' d'acqua solo se necessario. Una volta pronti, morbidi e delicatissimi, erano il miglior condimento delle "tajadele de casa", altro piatto apprezzatissimo per festeggiare la Pasqua.
La composizione del suolo e il clima, favorevolissimo per l'esposizione ma anche per il riverbero delle rocce, permettevano una produzione tanto precoce da essere richiesta dai Dogi di Venezia per il banchetto della festa di san Marco, il 25 di aprile. Le ceste, caricate sui burchi (barche da trasporto a fondo piatto) che discendevano il Bacchiglione, rappresentavano il piccolo tesoro e l'orgoglio della gente del luogo. Era una coltivazione remunerativa ma faticosissima perché per sfruttare le esposizioni migliori si arrivava a coltivare fazzoletti di terra nei punti più scoscesi, costruendo terrazze, le 'masiere' o 'banchette' del parlar comune, con muretti a secco e portando tutto a spalle, con le gerle, anche il concime.
Il premio era un prodotto di ineguagliabile delicatezza al palato che sublimava nel più caratteristico dei piatti primaverili, risi e bisi, più minestra che un risotto, semiliquida e ricca di piselli come vuole il detto «ogni riso un biso».
Per prepararla si partiva da un 'desfrito' di lardo o pancetta battuti con cipolla e prezzemolo. Poi si aggiungevano i piselli con acqua e brodo fino a cottura, infine si aggiungeva il riso. Un piatto semplice, che però non mancava mai nei banchetti delle tante dimore nobili della Riviera, come una memorabile cena dai D'Aremberg a Costozza, bagnata da pregiatissimi vini. E chissà, forse anche tavole tanto aristocratiche non avrebbero disdegnato la gustosa variante in uso nelle case contadine, risi e bisi con l'oca in onto, ricorrendo per l'occasione alla carne messa via in inverno nel suo grasso.
I piselli, ovviamente si preparavano anche in "técia". Non occorreva lessarli: aggiunti al soffritto, magari con un po' di pomodoro o di conserva, li si lasciava 'pipare' su un angolo della stufa con la pentola quasi del tutto coperta, aggiungendo un po' d'acqua solo se necessario. Una volta pronti, morbidi e delicatissimi, erano il miglior condimento delle "tajadele de casa", altro piatto apprezzatissimo per festeggiare la Pasqua.