Frutti perduti, si è soliti dire con la nostalgia per i loro sapori.
Forse sarebbe meglio dire frutti smarriti, per tener viva la speranza di rivederli sui colli e sulle nostre tavole.
Sono quelle specie coltivate che rischiano di essere soppiantate dai prodotti dell'agricoltura moderna, più belli e più convenienti, ma anche banali nei sapori, se questo qualcosa importa.
Un tempo ogni fattoria aveva i suoi alberi da frutto, talora unici per secolare quanto inconsapevole selezione: mele e pere, ovviamente; ciliegie e marasche, susine e pesche; un filare d'uva primaticcia da tavola e un fico, i cui frutti, seccati, si consumavano con il pane o la polenta in inverno; senza dire di qualche pianta particolare, per così dire esotica, che rappresentava il vanto e la curiosità dell'orto.
Da questo punto di vista prima citazione è senza dubbio per il melograno (Punica granatum, 'malgaragno') grosso arbusto caratteristico per il fogliame verde intenso e per i fiori vermigli, ma soprattutto per i frutti, costituiti da particolari bacche dette balausti, che giungono a maturazione in autunno.
I melograni (in dialetto 'malgaragni', 'pòmi granà') sono davvero inconfondibili per la buccia coriacea, cangiante dal giallo al rosso intenso, e per il gran numero di semi circondati da una polpa succosa che rappresenta la parte commestibile.
Da questa si ricava un succo di sapore fresco e acidulo, che serve per la preparazione di sciroppi, le cosiddette granatine, ma anche in cucina per insaporire varie preparazioni.
Uno dei piatti caratteristici del l'autunno vicentino è proprio la tacchina al melograno ('paeta al malgaragno'), cotta arrosto e irrorata col fondo di cottura corroborato dal succo zuccherino.
La pianta, che è di origini orientali ed è documentata nei giardini pensili di Babilonia, dalle nostre parti richiede esposizioni riparate ma, cosa singolare, proprio nei climi rigidi tende a dare raccolto più abbondante.
Sui Berici è presenza frequente negli orti di casa: i frutti, hanno sempre qualche estimatore disposto alla paziente opera di sgranatura, senza dire della loro funzione di decoro invernale sulla mensola del camino.
Al pari di 1 melograno il giuggiolo (Ziziphus jujuba, 'dudolaro')
è un alberello o più spesso un arbusto; lo si riconosce senza incertezza per i rami che si sviluppano a zigzag e per le foglie contrapposte che li adornano; i frutti sono delle drupe ovoidali, di colore rossobruno, dalla buccia i lucida.
Anche il giuggiolo è di origine mediorientale e ciò spiega la sua resistenza tanto al caldo e alla siccità quanto agli inverni rigidi, condizioni che si ritrovano anche nell'ambiente berico.
Le giuggiole ('dùdole' 'sùsube" 'zìzole') maturano nel primo autunno e si consumano sia fresche che leggermente avvizzite (ma vengono anche fatte seccare).
Un tempo i contadini le mettevano anche a macerare nella grappa per conferirle un gradito aroma di frutta.
Nel Vicentino la coltivazione del giuggiolo è attualmente circoscritta all'ambito familiare ma è significativo che la specie rivesta un certo interesse economico in zone vicine: nei Coli Euganei, innanzitutto, ma anche nel Basso Garda, dove si produce ancora il brodo di giuggiole, un liquore di ricetta rinascimentale tanto raffinato da ispirare l'espressione 'andare in brodo di giuggiole' per indicare uno stato di grazia davvero fuori dal comune.
Per restare a specie d'ambiente mediterraneo, l'ultima citazione è per il mandorlo (Prunus amygda lus,'mandolaro'), d'origine nord-africana, che sui Colli si trova piantato sulle coste più assolate assieme all'olivo, un po' come avviene in Sicilia, terra che più prontamente associamo alla sua coltivazione.
La presenza di questo albero, per quanto improbabile possa sembrare in ambito vicentino, ha conferma storica nella toponomastica che registra, per esempio, una via Mandolare che risale i Colli in quel di Villaga. Nel passato il raccolto, mai abbondante, era utilizzato nella preparazione di dolci e in particolare di un croccante casareccio, insieme ai più comuni semi di pesca, albicocca e a gherigli di noce. Oggi il mandorlo potrebbe recuperare questa funzione, pensando più a torte e pasticcino che a far concorrenza al mandorlato vero e proprio che ha non lontano, tra Lonigo e Cologna Veneia, il suo distretto d'elezione.
Forse sarebbe meglio dire frutti smarriti, per tener viva la speranza di rivederli sui colli e sulle nostre tavole.
Sono quelle specie coltivate che rischiano di essere soppiantate dai prodotti dell'agricoltura moderna, più belli e più convenienti, ma anche banali nei sapori, se questo qualcosa importa.
Un tempo ogni fattoria aveva i suoi alberi da frutto, talora unici per secolare quanto inconsapevole selezione: mele e pere, ovviamente; ciliegie e marasche, susine e pesche; un filare d'uva primaticcia da tavola e un fico, i cui frutti, seccati, si consumavano con il pane o la polenta in inverno; senza dire di qualche pianta particolare, per così dire esotica, che rappresentava il vanto e la curiosità dell'orto.
Da questo punto di vista prima citazione è senza dubbio per il melograno (Punica granatum, 'malgaragno') grosso arbusto caratteristico per il fogliame verde intenso e per i fiori vermigli, ma soprattutto per i frutti, costituiti da particolari bacche dette balausti, che giungono a maturazione in autunno.
I melograni (in dialetto 'malgaragni', 'pòmi granà') sono davvero inconfondibili per la buccia coriacea, cangiante dal giallo al rosso intenso, e per il gran numero di semi circondati da una polpa succosa che rappresenta la parte commestibile.
Da questa si ricava un succo di sapore fresco e acidulo, che serve per la preparazione di sciroppi, le cosiddette granatine, ma anche in cucina per insaporire varie preparazioni.
Uno dei piatti caratteristici del l'autunno vicentino è proprio la tacchina al melograno ('paeta al malgaragno'), cotta arrosto e irrorata col fondo di cottura corroborato dal succo zuccherino.
La pianta, che è di origini orientali ed è documentata nei giardini pensili di Babilonia, dalle nostre parti richiede esposizioni riparate ma, cosa singolare, proprio nei climi rigidi tende a dare raccolto più abbondante.
Sui Berici è presenza frequente negli orti di casa: i frutti, hanno sempre qualche estimatore disposto alla paziente opera di sgranatura, senza dire della loro funzione di decoro invernale sulla mensola del camino.
Al pari di 1 melograno il giuggiolo (Ziziphus jujuba, 'dudolaro')
è un alberello o più spesso un arbusto; lo si riconosce senza incertezza per i rami che si sviluppano a zigzag e per le foglie contrapposte che li adornano; i frutti sono delle drupe ovoidali, di colore rossobruno, dalla buccia i lucida.
Anche il giuggiolo è di origine mediorientale e ciò spiega la sua resistenza tanto al caldo e alla siccità quanto agli inverni rigidi, condizioni che si ritrovano anche nell'ambiente berico.
Le giuggiole ('dùdole' 'sùsube" 'zìzole') maturano nel primo autunno e si consumano sia fresche che leggermente avvizzite (ma vengono anche fatte seccare).
Un tempo i contadini le mettevano anche a macerare nella grappa per conferirle un gradito aroma di frutta.
Nel Vicentino la coltivazione del giuggiolo è attualmente circoscritta all'ambito familiare ma è significativo che la specie rivesta un certo interesse economico in zone vicine: nei Coli Euganei, innanzitutto, ma anche nel Basso Garda, dove si produce ancora il brodo di giuggiole, un liquore di ricetta rinascimentale tanto raffinato da ispirare l'espressione 'andare in brodo di giuggiole' per indicare uno stato di grazia davvero fuori dal comune.
Per restare a specie d'ambiente mediterraneo, l'ultima citazione è per il mandorlo (Prunus amygda lus,'mandolaro'), d'origine nord-africana, che sui Colli si trova piantato sulle coste più assolate assieme all'olivo, un po' come avviene in Sicilia, terra che più prontamente associamo alla sua coltivazione.
La presenza di questo albero, per quanto improbabile possa sembrare in ambito vicentino, ha conferma storica nella toponomastica che registra, per esempio, una via Mandolare che risale i Colli in quel di Villaga. Nel passato il raccolto, mai abbondante, era utilizzato nella preparazione di dolci e in particolare di un croccante casareccio, insieme ai più comuni semi di pesca, albicocca e a gherigli di noce. Oggi il mandorlo potrebbe recuperare questa funzione, pensando più a torte e pasticcino che a far concorrenza al mandorlato vero e proprio che ha non lontano, tra Lonigo e Cologna Veneia, il suo distretto d'elezione.