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Dovrebbe apparire di gusto quanto meno opinabile la scelta di fissare l'attenzione sui "monumenti della paura".
Non si può dubitare, infatti, che ogni castello, ogni fortezza, ogni luogo murato sia effettivamente generato da questa quasi necessaria conseguenza della vita associata: monumenti, dunque, della paura che si vuole incutere o monumenti della paura da cui ci si vuole difendere. Eppure la scelta non è affatto cervellotica o di moda, perché questi monumenti consentono di avvicinare quell'aspetto della mentalità individuale o collettiva che li ha generati e, quindi, la via di penetrazione da essi offerta risulta altamente affidabile, perché la paura, ed i suoi prodotti, sono davvero universali ed immascherabili.
Attraverso questi monumenti, perciò, potremo forse disseppellire le radici di alcune caratteristiche peculiari dell'anima veneta e dell'ambiente veneto.
In fondo tipo e distribuzione delle fortificazioni, ancora esistenti o in qualsiasi modo documentate, nel Veneto sembra abbiano la capacità d'indicarci segni non banali circa il senso di sicurezza o d'insicurezza, di prevaricazione subita od imposta, di consenso prestato od estorto, vissuto dai Veneti come riflesso dei diversi atteggiamenti che i regimi politici succedutisi in quest'area hanno prescelto.
Traguardando attraverso queste presenze invocate o paventate, un dato primario della vita di queste genti potrebbe esser riconosciuto come parte di noi, che viviamo, definitivamente o come ospiti meno distratti, questo territorio. Intuiamo subito che la riflessione qui proposta non può trasformarsi in un catalogo, più o meno completo, delle presenze fortificate rimaste nel Veneto, crediamo però senz'altro possibile lievitare con immagini esemplari, e persino anche con semplici richiami verbali, una suggestione evocatrice e di emozioni ricorrenti e di volti del potere e di atmosfere di soggezione e di programmi per desiderate collaborazioni.
Nelle varie zone del Veneto si coglie, fino all'alba del Quattrocento, una situazione fortificatoria composta da presenze del tutto eterogenee, a seconda dei differenti luoghi, poiché concretava diversi e contrastanti interessi, espressi dalle spesso antagoniste formazioni politiche, che governavano i distinti territori veneti. Dal Quattrocento, contemporaneamente al confluire di quei territori nella Repubblica Veneta, si osserva, invece, realizzarsi un programma elaborato da una mentalità capace di conservarsi nel tempo unitaria, coerente, costante nei fini, in grado di valutare nel loro coordinato complesso le esigenze, anche difensive, di tutti gli Stati Veneti e del Dogado veneziano.
Delle entità fortificatorie, che la Repubblica riceve o crea nei suoi Stati da Mar e da Terra, la nostra attenzione deve rinunciare a gran parte. Il nostro ambito di riflessione dovrà, infatti, escludere le fortificazioni dell'intero Stato da Mar; pur se proprio le fortezze concepite e realizzate per esso intendevano, oltre che assicurare la difesa, anche dimostrare a coloro che in quei luoghi vivevano, spesso "in faucibus inimicorum", la specialissima concreta disponibilità più frequentemente riservata a quegli avamposti. Anzi, quasi con ostensibile predilezione, ogni progresso tecnico trovava anticipata applicazione nello Stato da Mar: non per nulla agli odierni visitatori di Cipro si mostrano, quali documenti meritevoli di riflessione e di stupefatto apprezzamento, le fortificazioni venete. Qualunque sia stato l'esito della conquista turca dell'isola, non si può dimenticare che la più grande innovazione per la quale il Vauban è ritenuto il sommo maestro di fortificazioni nell'intera Europa durante il XVIII secolo, cioè la terrapienatura ad altezza nelle cinte bastionate, era stata già coscientemente realizzata quasi un secolo e mezzo prima da Giulio Savorgnàn, inviato dalla Repubblica proprio a Cipro per munire Nicosìa. Neppure lo Stato Veneto da Terra considereremo nella sua interezza per quanto concerne le fortificazioni: ci fermeremo alla sponda orientale del Garda, all'alto Mincio , al basso Po, per poi risalire dal basso Tagliamento verso le coronanti Dolomiti. Neppure qui la rinuncia, quand'anche nel solo campo delle fortificazioni, sarà di trascurabile importanza, perché anche qui ci sfuggirà, così come avvenne per lo Stato da Mar, quale consequenziale disegno d'assieme, quale prospettiva specificata nelle varie situazioni abbiano guidato le scelte del Veneto Governo circa gli apprestamenti difensivi in Terra Ferma per quattro secoli. Ma pur entro questi limiti, vistosi limiti, le opportunità per riflettere sulle fortificazioni del Veneto, e goderle, restano ancora consistenti.
Giova subito notare che le maglie delle necessità fortificatorie nell'attuale Veneto abbiano una precisa data d'inizio. Sono le ondate degli Ungari che inducono ad un'attività fortificatoria estesa, intensa, duratura. Quando nell'898 gli Ungari giungono al Brenta, dilagando nelle aperte pianure, poca resistenza incontrano nelle città ormai malamente fortificate e nessuna nei centri minori e nessuna nelle campagne sguarnite definitivamente di opere, per quanto occasionali, da difesa. L'ondata dell'anno seguente si frange ed arresta unicamente alla base delle Alpi piemontesi e solo dopo aver massacrato nell'autunno l'esercito di Berengario I del Friuli, re d'Italia. Il clima di terrore diffuso ci si palesa non attraverso lontane ed artificiosamente colorite narrazioni, bensì palpita in concitata immediatezza nei documenti giuridici pressoché simultanei. Così Joannicio, abbate di Santo Stefano di Altino, nell'implorare, durante il febbraio del 900, Pietro Tribuno doge di Venezia, trema ancora per il dramma che gli riempie gli occhi e "con gemiti e cuore straziato" affannosamente enumera "i danni patiti dal suo cenobio, il saccheggio dei beni, i coloni uccisi o scacciati" per mano delle "crudelissime tribù degli Ungari riversatesi in Italia, consumando depredazioni infinite, incendi, omicidi, devastazioni". Il terrore si dilata sotto l'incalzare delle orde che si susseguono a scorrere le pianure venete e lombarde; da questo ripetersi di drammi nasce il tentativo di tutelare persone e beni dalle "incursioni ed aggressioni degli Ungari pagani" esperito da Berengario col largheggiare nelle concessioni privilegiate per estendere i punti di resistenza e per migliorarli. In questa prospettiva Berengario consente il 23 luglio 912 che Risinda, abbadessa di Santa Maria Teodote presso Pavia, costruisca nei luoghi stimati più opportuni dei possedimenti abbaziali "castelli, bertesche, torri merlate, rivellini, terrapieni fortificati, fossati e qualsiasi tipo di artificio difensivo capace di rintuzzare gli assalti dei Pagani".
Nessun accorgimento appare, però, tempestivo o sufficiente, se gli Ungari riescono nel 924 a saccheggiare, a bruciare persino Pavia stessa, la Capitale fortificata del Regno. Ritiratesi le ondate, la paura rimane radicata nell'animo, e così si continua a fortificare quasi rabbiosamente. Anche il Veneto resta coperto, letteralmente coperto, da queste efflorescenze della paura, da punti più o meno perfettamente fortificati. Il paesaggio che ne emerge, complicato poi ed enormemente modificato dalle vicende ulteriori, si può dire sopravviva con illuminanti reliquie, capaci di connettere un tessuto difensivo, di cui oggi a stento si riescono ad intuire complessità ed importanza umana, e capaci altresì di far trasparire alcune delle ragioni che giustificano certe formazioni caratteristiche della topografia antropica del Veneto.
Sull'incerto limitare tra quasi-terra e quasi-acqua lungo la gronda lagunare veneziana resta, proprio vicina ad Altino, una testimonianza fortificatoria, solo modestamente trasformata, databile al periodo. Questa avrebbe potuto essere assieme torre di vedetta e perno di difesa: la torre dell'abbazia (forse fortificata) di Sant'Elena "in insula Texarie" (=Tessèra). Né appare dato secondario che la sua canna cilindrica ricordi da vicino le torri-campanili che s'innalzano lungo le salmastre lagune ravennati: l'una e le altre sembrano anelli di una catena di controlli a vista che si sviluppa sù sù fino alla torre-campanile, pure cilindrica, nell'isola di Càorle, torre ricostruita con ogni probabilità su preesistente analogo tipo.
Sappiamo bene che numerose altre zone conservano oggi testimonianze fortificatorie quantitativamente più doviziose che non il Veneto attuale, e le ragioni storiche che hanno portato a tale situazione sono altrettanto agevolmente intuibili. Non di meno appare subito come il Veneto attuale offra (ed ancor meglio l'offrirebbe l'insieme intero dei territori da Mar e da Terra della Veneta Repubblica) una tale ricchezza tipologica di difese fortificate da giustificare l'attenzione anche verso i singoli manufatti di per sé soli. Le circostanze che hanno condotto a questa ricchezza tipologica, raramente riscontrabile in altri territori, non risiedono solo nella ricchezza del Veneto riguardo ai dati topografici, ai quali le fortificazioni debbono adeguarsi per valorizzarli, bensì anche nel succedersi dei, già rammentati, interessi politici, strategici e tattici cui i vari Governi, che hanno amministrato il Veneto fino al Quattrocento, dovettero corrispondere. Non è, infatti, agevole rinvenire in un territorio d'estensione simile al Veneto, altrettanta varietà di situazioni geografiche, fisiche ed antropiche, di cui servirsi o da difendere: dagli scoscendimenti di passi e gole alpini, alle distese lacuali, all'intersecarsi di fiumi dalla grande o minore portata, alle scoperte pianure ampiamente coltivate, alle lande acquitrinose, ben più vaste di quanto oggi ci sia familiare, alle complicazioni costiere insinuate da lagune e da foci, alle diversità delle zone collinari, alle caratterizzazioni delle concentrazioni e distribuzioni abitative.
Ogni zona topografica è vieppiù specificata nelle esigenze fortificatorie per separazioni di ambiti feudali e non, sia laici che ecclesiastici, per l'andamento talvolta capriccioso e quasi mai durevole dei confini tra entità politiche frequentemente nemiche, per esigenze del tutto peculiari di vie inservienti grandi, e persino grandiose, correnti di traffico internazionale. Basterebbe chiamare alla memoria la pressoché continua catena, quasi del tutto scomparsa, rappresentata dalle fortificazioni che si susseguivano sulle rive dell'Adige e del Po, onde acquisirne la prova palmare. In questa sede ometteremo ogni documentazione visiva circa problemi e soluzioni difensivi a servizio degli attuali capoluoghi delle Venete Province.
Solo ai problemi fortificatori di Venezia riserveremo un cenno, poiché in quell'opuscolo di essa non è stata offerta visione alcuna. Rifletteremo dunque su creazioni difensive (naturalmente solo sulle autentiche) sparse nell'attuale Regione Veneto. Siamo certi che quelle (e molte altre) testimonianze offrano al visitatore appena un poco attento non solo il contatto con emozionanti opere dell'uomo, bensì anche lo immergano in spazi naturali dolcissimi od esaltanti: a riprova piacerebbe invitare a meditare sui resti, poveri ma affascinanti, ed ancora abitati, del castello di Biaza, sepolto tra gli ulivi e dominante il Garda appena a monte di Castelletto di Brenzone.
Le dimensioni ed il significato del problema fortificatorio, recato con sé dall'appena costituito Stato Veneto da Terra (che pur giunge fino all'Adda), sono tali da lasciare una traccia persino nell'immagine più sintetica della Veneta Repubblica: il suo emblema. Al Leone marciano che emerge a mezzo corpo dai flutti si affianca, fin quasi a sostituirlo, il Leone marciano che, posando solitamente le zampe posteriori sui flutti e le anteriori sulla terra, esibisce la realtà, ora duplicata, dello Stato da Mar e dello Stato da Terra organizzata in un unico corpo vitale dall'originario Dogado dell'Evangelista.
Se Jacobello dal Fior, che già nel 1415 esprime quest'emblema modificato, in cui la Veneta Terra Ferma è raffigurata sotto l'ala tutrice e rispettosa del Leone marciano che l'abbraccia, riassume la varietà dei caratteri topografici di quel territorio nel colle che il Leone fronteggia, Donato Veneziano nel 1459 perfeziona l'emblema nel modo che diverrà poi il definitivo e più completo: cimando il colle con una fortificazione, attraverso la quale intende comunicare la necessità e di tutelare e di venir tutelati; né a caso questa fortificazione assume per il pittore ufficiale la forma di ben elaborato castello, ideato secondo il tipo che in Terra Ferma appare il più usato. La "principalità del sito murale", come dirà Leonardo, s'impone ormai ai Veneziani con peso per l'avanti conosciuto in quella forma ed in quella dimensione. Questi navigatori-mercanti (ed anche politici, e grandi, ma solo per conseguenza) erano abituati, salvo che nell'isola di Creta, a rinsaldare con fortezze marittime punti ben delimitati e circoscritti di costa, non già vaste distese territoriali, come invece ora necessita per lo Stato da Terra.
Le consistenti e variegate eredità fortificatorie, pervenute alla Repubblica dalle organizzazioni statali che prima di lei avevano signoreggiato la Terra Ferma, si moltiplicavano nelle specie più eterogenee e nei modi più graduati circa l'efficienza e l'efficacia difensiva. Di fronte a questa inconsueta bisogna la Serenissima deve decidere su quali difese esistenti intervenire: quali valorizzare o quali trasformare, quali eliminare od abbandonare, e su che cosa creare ex novo. Ma ancora una volta il Veneto Governo soggiace, prima di deliberare, anche per quest'oggetto, a quella "ingordigia d'informazioni" che il mercante aveva senza eccezioni trasferito nella gestione politica dalla pratica della mercatura; ingordigia che si presenta come forza motrice del tutto primaria in un'interminabile serie di realizzazioni dello Stato Veneto.
Non per nulla è quest'ingordigia che trasforma la diplomazia veneziana da pur raffinato strumento occasionale in istituzione permanente; è la stessa ingordigia che organizza la rete informativa, ammirabile ed ammirata, per prevenire i pericoli contro "il comun bene de la publica sanità".
L'esigenza dunque, di puntuale previa informazione, pure riguardo alle necessità difensive, produce inchieste, ricerche ma specialmente disegni tecnici, topografie, mappe, fino a che il Consiglio di Dieci esige nel 1460 che sia sistematicamente delineata la descrizione dell'intero territorio da Terra in una completa cartografia, per la quale emana rigorose, precise, minuziose norme. In questa documentazione cartografica, perciò, le strutture fortificatorie hanno, spesso in veduta realisticamente prospettica, spazio eminente e rilevante fedeltà d'immagine. Né solo i punti fortificati godono di penetrante evidenza, bensì, proprio in funzione di quelle opere e dei punti da munire, vengono delineati anche, e con tutta la precisione di cui l'epoca è capace, "i fiumi, le pianure, le distanze da luogo a luogo, le terre confinanti, i passi d'accesso". Si compie, dunque, una valutazione, ed approfondita, del patrimonio difensivo esistente, sia manufatto che naturale, onde poterne assicurare l'utilizzazione più perfetta e più economica. Scopo non ultimo di quest'attenzione al dato fortificatorio poteva essere , anzi era il "tegnir el populo in fide", nel senso che il Governo Veneto sempre considerava interesse del tutto preponderante garantire all'universalità degli abitanti della Repubblica quanto di meglio si potesse escogitare e creare, per corrispondere con adeguatezza all'impegno di difendere terre e genti che a san Marco s'erano affidate.
Già si osservava come la ricevuta eredità fortificatoria, pur imponente e prestigiosa, corrispondesse solo in minima parte alle esigenze, ora nuove, dell'intero Stato Veneto da Terra e come, necessariamente, l'insieme di essa non corrispondesse, per la disparità delle sue ragioni originanti, ad una concezione unitaria delle soluzioni, unitarietà ora invece irrinunciabile per il Veneto Governo Appariva, ad esempio, spesso assai poco congruo ad una vision strategica dell'intero territorio il ruolo che avrebbero potuto assumere castelli di singole famiglie.
Se in generale irrobustire un'entità fortificata è sempre una decisione a doppio taglio, soprattutto nell'evenienza che forze ostili se ne impadroniscano ritorcendo Ia procurata efficienza, diveniva specialmente delicata, a questo proposito, la valutazione dei punti fortificati posseduti da famiglie e nobiltà anteriore al giungere del Governo Veneto in quelle zone, quale raramente da tali famiglie era ben accettato. Il pericolo temuto si dimostrerà con precisione assoluta non ipotetico, quando quasi tutte le famiglie della nobiltà veneta di Terra Ferma, risiedessero nelle città o negli aviti castelli, aderirono ai nemici della Repubblica collegatisi a Cambray.
Dalla circostanza risultano chiare le motivazioni per cui i Capi da guerra a servizio della Repubblica, durante le operazioni, e, dopo esse, gli Organi del Governo ordinassero una falcidie di quei manufatti, dei quali oggi rimpiangiamo la scomparsa: d'altronde il senso dello Stato che animava la Repubblica non poteva consentire private resistenze. Alle demolizioni si sostituirono talvolta controlli o modificazioni che dei castelli irretissero l'utilizzazione militare, tentando in qualche caso la devoluzione del castello e dei diritti connessi a patrizi veneziani od a persone certamente fedeli alla Repubblica.
La mente del Governo Veneto si orienta, e con coerenza, a conservare, a valorizzare quasi esclusivamente quelle fortificazioni che fossero suscettibili di uso pubblico. In questa linea si pone la politica fortificatoria nei riguardi dei maggiori centri urbani. Basterebbe pensare in proposito al dibattito che nel 1630 si sviluppa intorno alla progettata revisione delle mura di Vicenza, nel quale interviene con tutto il peso della sua splendida esperienza tecnica Francesco Tensini, architetto militare della Repubblica. Una corrente preferiva che la città fosse sovrastata da una fortezza costruita a Monte Berico, nella quale concentrare i corpi armati. L'intenzione era, specialmente e principalmente, quella di salvaguardare la forza armata e di conservare ad essa la possibilità offensiva, abbandonando però abitato ed abitanti alla discrezione del nemico cui le muraglie medioevali non erano più in grado di resistere.
Scopo aggiuntivo, né troppo dissimulato, era quello, comune a molti responsabili europei del periodo, di controllare e raffrenare il popolo, se rivoltoso. La corrente che invece suggeriva fosse assunto il più grave onere per la revisione dell'intera cinta muraria non revoca in dubbio alcuno la propensione della maggioranza dei Vicentini per la Repubblica, anzi vedeva come più consona a quel senso dello Stato, che la Serenissima s'era impegnata a trasmettere, la difesa solidale e corresponsabile di tutti verso beni e persone della stessa comunità. E la Repubblica accede, come in quasi tutte analoghe contingenze, alla soluzione di rafforzare e ricreare l'insieme dell'intera cinta muraria. E Vicenza forse neppure s'accorge che questa decisione le offriva "le più impressionanti fortificazioni dell'intera Europa, prima di Vauban" (J. Hale).
Il caso vicentino non faceva altro che ripetere decisioni anteriori sostanzialmente analoghe in altre località. Così Carlo V ed il Duca d'Alba, che delle più varie fortificazioni sono esperti qualificatissimi per necessità professionale, restano stupefatti e desiderosi di fortificazioni simili a quelle che il veronese fra' Giocondo aveva appena completato per Treviso; cosi le fortificazioni di Padova, progettate da Bartolomeo d'Alviano, sono ritenute dagli architetti militari contemporanei prototipi da imitare. Ove allargassimo il nostro campo d'indagine all'intera Repubblica, le meraviglie, le eccezionalità delle realizzazioni, i precorrimenti tecnici e politici sarebbero pressoché senza fine.
Nel momento in cui si completava lo Stato Veneto da Terra, un nuovo metro s'imponeva per valutare il patrimonio fortificatorio esistente: cioè la capacità di ogni singola opera nel resistere agli effetti della rivoluzione recata dallo sviluppo delle artiglierie a polvere. Sviluppo lento, se vogliamo, ma inarrestabile, di fronte al quale l'architettura militare si va trasformando, seppure in tempi protratti a causa della viscosità della tradizione, che ancora a lungo fa desiderare l'aspetto maestoso delle svettanti torri, delle alte, ma relativamente sottili, muraglie, ostacolo sufficiente per i cavalieri, per i fanti, forse anche per le artiglierie a corda. Ma quando si constata la possibilità di manovra delle artiglierie a polvere e l'aumentata potenza delle loro percussioni, alle quali la resistenza inerte di nessuna muraglia, per quanto spessa, poteva validamente opporsi, la trasformazione più radicale diviene una decisione non differibile. E perché la trasformazione delle opere fisse di difesa passiva s'imponesse come necessità imprescindibile, non occorreva certamente attendere l'inizio del XVI secolo, quando una media batteria d'assedio poteva concentrare dai trecento ai cinquecento proiettili su circa otto metri quadrati. D'altronde la Repubblica aveva sperimentato in proprio, a partire specialmente dal 1372, la potenza crescente e risolutrice dell'artiglieria da fuoco, finché le vicende della Guerra di Chioggia forniranno la prova più convincente. Quella capacità risolutiva delle artiglierie da fuoco comincia a determinare talmente le decisioni dei Pubblici Poteri Veneti da impegnarli a predisporre ben presto quanto di più perfezionato fosse al riguardo disponibile. In questa linea di tendenza le artiglierie venete conseguiranno, durante la Repubblica, la fama di essere, come lo erano, seconde solo a quelle germaniche, le quali risultavano migliori unicamente per la purezza del rame che entrava nella lega di bronzo con cui erano fuse (M. Morin).
Eppure la visione delle necessità, per quanto chiara e precoce, non poteva consentire al Governo Veneto di addossarsi l'onere gravosissimo di trasformare l'intero patrimonio fortificatorio, e questo non solo per il peso finanziario insostenibile, ma anche perché una ormai diversa visione strategica, e soprattutto tecnica, suggeriva localizzazioni innovate circa la distribuzione dei vari punti di resistenza. Il ribadito orientamento della Repubblica a tener conto per la difesa prevalentemente di realtà ad utilizzazione e servizio pubblici, congiungendosi alle tecniche richieste dalle artiglierie da fuoco, emarginava, ancor più decisamente anche per queste ragioni, alcune presenze fortificate, specialmente nella pianura. Per conseguenza il castello di tipo prettamente medioevale, soprattutto se di proprietà familiare, diviene realtà superata dal punto di vista tecnico oltre che, come si disse, politico. Od il castello si trasforma in fortezza, nella totalità della sua struttura oppure almeno per una parte di essa, onde adeguatamente resistere ai nuovi mezzi d'offesa, o sparisce per abbandono o sopravvive alla propria funzione ormai esauritasi: relitto adesso irrilevante per il sistema difensivo, offrendo al massimo qualche opportunità di residenza, ingentilito e spogliato mano a mano di molte delle caratteristiche che lo rendevano strumento di difesa militare.
Il monumento della paura diviene talvolta luogo di svago, di riposo in paesaggi ora consolanti, ovvero sede della diretta amministrazione dei beni fondiari, avvicinandosi in tal guisa alla villa, strutturalmente ed in alcune (solo alcune) delle motivazioni che avevano suggerito l'invenzione di quella.
Quello stesso prestigio, per così dire visivo, conservato dal castello "all'antica", circondato da mura merlate ed arricchito da torri, prestigio che abbiamo osservato ritardare il conformarsi delle antiche costruzioni alle esigenze imposte per difendersi dall'artiglieria a polvere, genera un qualche altro, e curioso, effetto: la creazione di quello che si potrebbe definire il "castello per gioco". Di questo "prodotto" esistevano nel Veneto almeno due esempi letificanti, di cui uno superbo ancora conservato. Il sogno del perduto Regno di Cipro coltiva in Caterina Cornèr, la struggente regina-oggetto, il desiderio di un castello tutto e veramente suo, ch'ella vede realizzarsi ad Altìvole. Se l'antico disegno prospettico offertoci da G. Mazzotti nel Catalogo della Mostra sui castelli veneti (1960) è veritiero ed esattamente interpretabile, nell'estremo Quattrocento prende vita l'ariosa residenza, ma circondata da duplice ordine di mura merlate e turrite, che si avvicinano con qualche divertita approssimazione ai più tradizionali modelli antichi; possiamo solo rammaricarci che del complesso sussista oggi unicamente il "Barco della Regina".
Una coincidente circostanza meriterebbe un tentativo oculato d'interpretazione: esattamente negli stessi anni, proprio nello stesso territorio, a Roncade, i Giustinian costruiscono una festevole villa, aperta alla dolce luminosità della pianura trevisana. La villa incantevole tutt'ora si offre incastonata entro un quadrilatero di mura merlate e turrite, con l'accesso dal ponte sul fossato acqueo perimetrale difeso da due torrioni cilindrici. L'aspetto ripete anche qui con attenta imitazione i modelli dei più muniti castelli, ma l'esame appena un po' meno superficiale ci svela immediatamente un concepimento tutt'altro che guerresco. La modesta altezza delle mura, la loro esasperata sottigliezza, quasi di quinta teatrale, originariamente senza corpo da utilizzare, il rapporto di reciproca elevazione tra mura e torri angolari, sembrano confermare l'intento "giocoso" dell'intera struttura.
Roncade, come Altìvole, sono la negazione più evidente di ciò che castello, od in genere opera fortificata, hanno di assolutamente caratteristico: essere creazioni di architettura (o ingegneria?) funzionale, le quali cioè realizzano un unico intento, quello di servire allo scopo per cui sono volute, senza che l'impegno eventualmente estetico divenga primario o determinante nell'essenza tecnica del manufatto. Se il castello nasce e vive come opera per la difesa, né Altìvole né Roncade sono castelli veri, ma al massimo divertimenti manieristici d'imitazione formale, e neppure potrebbero essere castelli veri ove l'artiglieria da fuoco fosse non ancora stata scoperta. La ragione di queste scelte meriterebbe, giova ripeterlo, una specifica riflessione in grado anche di chiarire i rapporti tra i "castellani" e la gente che vive intorno a queste costruzioni dall'aspetto a prima vista non giustificato. Se per la malinconica Regina di Cipro "quiescente" la nostalgia può aver orientato la scelta nel determinare l'aspetto della costruzione commissionata o trasformata, per i Giustinian a Roncade la scelta voleva forse comunicare l'intenzione di allacciarsi per continuità con l'antico castello ivi preesistente, ai cui proprietari succedevano i Giustinian; la scelta avrebbe potuto voler invece esprimere il desiderio d'ammantarsi con un'immagine che nella tradizione mentale era divenuta simbolo, più o meno realistico, del potere e della potenza per mantenerlo; ovvero, più semplicemente, manifestava nelle forme il rinvigorirsi, proprio in questo periodo, dell'istituzione feudale.
Se pur questa "seconda feudalità" aveva origini, andamenti, facoltà, pratiche solo in parte analoghe alla feudalità medioevale, essa non voleva affatto rinunciare al simbolo ritenuto inscindibile e più rappresentativo ai quell'istituzione politico-sociale.
Non dissimile sorte da quella riservata ai castelli l'avvento dell'artiglieria da fuoco prescrive ai borghi murati: qualunque fosse la dimensione del concentramento abitativo fortificato, qualunque fosse il prestigio dei manufatti difensivi che rafforzavano le strutture di quelli. Peschiera del Garda per Dante, abituato alle milizie comunali, è davvero il "bello e forte arnese"; per Francesco Sforza, capitano di milizie a servizio della Repubblica ed uomo del mestiere, davvero si può prendere la rocchetta di Peschiera solo per tradimento o per pusillanimità, come quella del castellano che gliela consegnava, al quale rinfacciava tutto il proprio disprezzo sibilandogli "Non so quello me tegni ora non ti facia impicar per le cane di la gola: chi sarìa sta' quello te havesse de qui caziato?"; ma per il diciassettenne Marin Sanudo, ormai permeato dalle capacità delle artiglierie, Peschiera ha "mure assa' debele". Persino all'eccezionale Peschiera, dunque, non sarebbero bastate l'eccellenza strategica del proprio sito, l'evidente importanza dell'area da essa controllata, per poter continuare la propria carriera di piazzaforte, se il Governo Veneto non avesse adeguato al progresso delle tecniche fortificatorie le difese di essa.
Perciò solo accettando lo sforzo di trasformare le preesistenze e d'inventare il nuovo la Veneta Repubblica garantisce che il sistema difensivo, ch'essa decide di mantenere, possa godere splendori qualitativi piuttosto che masse quantitative rilevanti. La controprova di questo intendimento nei Pubblici Poteri Veneti è proposta dal destino che seguì la più importante delle fortificazioni ricevute dalla Repubblica in Terra Ferma. È appunto l'impossibilità d'esser trasformato in guisa da resistere agli attacchi delle artiglierie che decreta la scomparsa quasi completa del celebrato Serraglio veronese. Quella muraglia, cioè, che iniziata dagli Scaligeri nel 1345 sperava di contenere le mire espansionistiche dei Mantovani verso il territorio veronese. La costruzione non era certamente la Muraglia cinese, eppure era sistemazione difensiva capace di manifestare, come i valli romani, coscienza fortificatoria avanzatissima per le dimensioni e per il suo posizionamento: la coscienza fortificatori; più avanzata e funzionale per l'epoca sua.
Ancora nel 1483 Sanudo osserva e valuta questi sedici chilometri di "mura grosse con fosse cavade, li toresini et bombardiere et balestriere: comenza a li confini de la palude dil Grezàn (...) e finisse nel fiume" Mincio; Borghetto di Valeggio. Ma se le caratteristiche del Serraglio gli consentivano un'utilizzazione solo pubblica, e quindi l'avrebbero dovuto includere tra le fortificazioni da conservare secondo il programma della Repubblica, al quale s'è accennato, I'impossibilità invece di renderlo resistente all'artiglieria lo faceva confinare tra le fortificazioni da accantonare, come in realtà avvenne. Eppure i Serraglio recava in sé un insegnamento, ed in quella misura, pressoché inarrivabile di "adattamento al terreno" e di esaltazione delle difese naturali, delle quali ampliava e rafforzava le capacità.
Il Serraglio, infatti, si attestava sul ponte-diga di Valeggio ed all'estremità opposta sulle paludi di Grezzano, si rafforzava sulla Rocca di Nogarole e sul poderoso, ed ancor oggi affascinante borgoforte di Villafranca, imperniando l'interno complesso sulla fortezza della Gherla, sfortunatamente quasi scomparsa. Il ponte diga di Valeggio, seppure spezzato sulla fortezza centrale, ci narra la stupefacente suggestione dei suoi seicento metri di lunghezza con cui sbarra l'intera valle del Mincio, lucido e chiarissimo. L'opera splendida, voluta nel 1393 dal Visconti, completava il Serraglio scaligero ed aspirava ad altri scopi di alta ingegneria militare.
La difesa passiva del manufatto si dispiega nello spessore e nell'altezza delle mura laterali merlate, nelle ventiquattro torri minori che le rafforzano, nelle tre rocche che lo dominano. Un sistema di saracinesche poteva poi chiudere gli archi del ponte, provocando l'arresto del corso del Mincio. Lo scopo militare di quest'accorgimento non sembra potersi determinare in modo certissimo. Le ipotesi circa l'uso di questa possibilità di blocco, stimolanti tutte, possiedono grado differente di verificabilità, ma di esse alcune appaiono più verosimili, poiché si armonizzano con problemi e soluzioni vivissime nel periodo. L'ipotesi che vedrebbe il blocco del Mincio come inteso a prosciugare i laghi di Mantova, onde poterla espugnare, appare forse la meno attuabile, pur se Leonardo si offrirà a Ludovico il Moro come capace di deviare corsi d'acqua, di prosciugare i fossati che cingessero qualsivoglia nucleo fortificato. L'ipotesi secondo la quale l'intercettazione del corso del Mincio avrebbe potuto impedire le risalite offensive dei Mantovani, sembra quella strategicamente meno fondata per l'insicurezza e l'inagevolezza tattica della navigazione bellica sul fiume. Più accettabile una terza ipotesi circa l'utilizzazione delle paratie per la chiusura dei fòrnici del ponte-diga, utilizzazione che s'inserisce congruamente in una pratica tattica, anche allora, abbastanza comune. Si sarebbe potuto attuare l'arresto del deflusso del Mincio onde allagare, sfruttando i rialzi morenici paralleli al corso fluviale, ampie zone a monte del Serraglio. Quelle zone sarebbero divenute così quasi del tutto invalicabili per truppe in movimento, e contemporaneamente si sarebbe rafforzata la potenzialità difensiva del Serraglio, escludendo le possibilità di aggirarlo da quel lato. La pratica dell'allagamento attuata anche tramite artificiali esondazioni di fiumi per mezzo di rotte intenzionali degli argini, a costo di sacrificare per lunghi tempi vasti spazi coltivati, era stimata per il proprio territorio danno accettabile. Che la muraglia si attestasse, poi, all'altra estremità nelle paludi (naturali) di Grezzano, perfeziona il quadro interpretativo. Tanto più l'interpretazione risulta fondata quando si constati che le paludi di Grezzano erano solo il punto d'inizio di vastissime zone acquitrinose, impraticabili per esser intersecate da una labirintica ragnatela di fiumi minori, di fiumicelli, di scoli, di tagli, di canali artificiali. Terreni paludosi che proprio da Grezzano si dipanano in direzione ovest-est tra Adige e Po per congiungersi alle Valli Grandi veronesi, alle basse terre padovane e polesane, fino a saldarsi con l'asse nord-sud di altre specie di paludi: quelle delle lagune salmastre che orlano le coste adriatiche italiane e si stendono, ed allora senza interruzioni (o quasi), da Monfalcone a Rimini.
Queste le difese naturali su cui s'appoggiano per essere valorizzate le difese concretate dall'uomo. Gli impedimenti frapposti da questi tipi di terreno sono sperimentati con disegno sottile e grandioso da Roberto Sanseverino, condottiero alle dipendenze della Repubblica, il quale tenta nel 1482 durante la Guerra di Ferrara, di giungere nel Polesine di Rovigo attraverso appunto le paludi del Tartaro, le quali del sistema appena descritto di acquitrini sono lo snodo caratterizzante. Il sagace condottiero predispone una serie di argini, di ponti, di fortificazioni campali, di bastioni e di "fascinade", per consentire ad uomini ed a materiali un transito protetto attraverso terreni così infidi.
La prova suprema delle altissime ed incontroverse capacità difensive offerte da un tale ambiente naturale inerisce al più duraturo, irripetibile, appassionante monumento della paura che mai sia stato creato nell'interno di luoghi siffatti: quel nucleo vitale che col tempo diverrà Rialto, cioè Venezia. Questa creazione dell'impeto incalzante, e poi stabilizzato, del terrore è totalmente voluta ed attuata e perfezionata fino al limite d'ogni umana grandezza da un popolo di uccelli palustri, che dovevano, ancor prima di costruirsi il nido, inventarsi il terreno su cui appoggiarlo (Cassiodoro), trasformatisi in industri castori, capaci di utilizzare e trasmutare gli specchi lagunari, dalle incerte, cangianti e (per l'estraneo) quasi impenetrabili strutture e metamorfosi, in fortezza tutrice della vita personale ed associata (Goethe).
L'impulso a correre verso queste "paludi" proviene dall'impellenza cosciente della paura, piú che dalla conoscenza sperimentata circa la funzionalità difensiva ad esse connaturata. Eppure già il padovano Tito Livio (Storie X 2) rammenta minuziosamente queste opportunità, quando narra lo svolgersi e gli esiti della disfatta consumatasi nel 302 a.C., esattamente in questa "palude", e proprio per le specifiche caratteristiche naturali sue, a danno dello spartano Cleonimo. La capacità difensiva garantita da queste acque, tanto più sicure quanto più incerte e variabili, si manifesta puntualmente secondo l'identico schema ed in derivazione dalle identiche prerogative dell'ambiente, ogni qual volta è posta alla prova da eventi drammaticamente coinvolgenti coloro che in esse si sono rifugiati.
Cosi avviene quando i Barbari s'arrestano ai bordi delle lagune (secc. V-VI), non, come s'insinua, per sacrale timore verso le acque, bensì, più prosaicamente, perché non dispongono dei natanti più modesti, con i quali scivolarvi sopra. Cosi fallisce il disegno di Carlo Magno che, per mano del figlio Pipino, agogna (810) a queste paludi, ormai appetibili. Così il disorientamento per le peculiarità della zona paralizza i Genovesi durante la Guerra di Chioggia (1380). Così la liquida barriera sostiene la caparbia volontà di sopravvivere mostrata dai Veneziani di fronte alla volontà di eliminarli, avidamente bramata ed implacabilmente perseguita da Italiani ed Europei collegati a Cambray (1513).
Nonostante questa accertabile funzionalità difensiva propria delle "paludi" lagunari, non affatto gratuito risuona l'incredulo e candido stupore di Franco Sacchetti, il novellista trecentesco, il quale non cessa di meravigliarsi né sa convincersi, perché adusato nei luoghi suoi a ben altro sistema, che sia "Venetia costruita in acqua, sanza mura": realtà mai veduta, mai udita, soprattutto per una capitale di tanta importanza. Realtà mai creduta, se non sperimentata di persona: per questo Matteo Prunes da Maiorca, cartografo nautico squisito, che di Venezia certamente non ebbe visione diretta, ha necessità nel 1560 di delinearla, onde renderla credibile, racchiusa entro cerchia di mura poderose. L'immaginazione meglio intenzionata non può tuttavia stravolgere la realtà sino a privarla del suo più individuante connotato: per ciò la veduta prospettica, con la quale Prunes narra la Venezia murata e turrita della sua fantasia, non può esser proposta senza l'immagine dei canali che venano per ogni dove il suo corpo sognato. Se la difesa passiva rappresentata anche da un modesto braccio d'acqua, e persino da un semplice fossato, era ben reale, la potenzialità difensiva veniva aumentata a dismisura dall'ampiezza delle distese lagunari, ma specialmente in esse dall'invisibilità dei bassifondi, dalla capricciosità di "velme" e di "barene", dall'andamento serpeggiante degli ignorati passaggi percorribili, e solo da natanti particolari. Eppure anche il centro rialtino ebbe convenzionali fortificazioni. Quand'anche fosse poco attendibile la notizia di Giovanni diacono, secondo il quale al tempo delle ondate degli Ungari in terraferma si sarebbe provveduto a costruire mura difensive lungo l'ansa del Bacino di San Marco fino a Santa Maria Zobenigo del Giglio ed a sbarrare con una catena di sicurezza l'imboccatura del Canal Grande, possiamo senz'altro documentare che il Palazzo del doge aveva struttura di turrito castelforte. È pur vero che le mura merlate dell'Arsenale avevano lo scopo più di cautelare la segretezza delle forze che di generale difesa, ma non a caso l'estremità orientale dell'arcipelago rialtino, posto in faccia all'accesso principale dal mare, dove sono e l'Arsenale e la sede del Vescovo, si denomina Castello.
Nella stessa guisa la Punta della Dogana da Mar reca ancora, assai trasformati, segni di mura e di torrione possente; né la Giudecca è da meno esibendo fino al Settecento un vero sistema di torri e di mura nella sua ultima propaggine di levante. Ma questi episodi pur notevoli, ma non sistematici, non smentiscono Franco Sacchetti; Venezia è davvero sanza mura, od almeno senza le mura consuete, perché Venezia ben possiede altre mura difensive, mura singolari, non di pietra, ma realissime e fortissime: le acque nelle quali risiede, dalle quali sorge a vita sicura sono le mura di lei.
Mano a mano che i Veneziani acquistano coscienza della propria sicurezza, certezza dell'assoluta efficacia difensiva delle ampiezze lagunari, di altrettanto si liberano dalla paura ed i monumenti di questa si trasformano a vita civile o spariscono o si concentrano dislocandosi. La convinzione ormai radicata, perché sperimentata, e pacificamente accettata, che siano le acque le vere mura difensive di Venezia, come detta la sonante e penetrante promulgazione dell'Egnazio, così suggerisce l'accorato sonetto del chioggiotto Cristoforo Sabbadin, il più capace e sensibile ingegnere idraulico cui Venezia affidava la sopravvivenza delle lagune, cioè delle sue mura. Fin dalla più antica documentazione conservata emerge la prova costante di come la valutazione delle lagune, quali aree irrinunciabili per la vita e quali strumenti difensivi per eccellenza, non consenta alla praticità veneziana d'arrestarsi, neppure per un attimo, nel compiacimento mentale, bensì quasi la costringa ad operare. Un momento di rinnovato timore, passato ma non trascorso, obbliga, per cosi dire, il Consiglio di Dieci ad assegnare l'esame dell'intero sistema difensivo della laguna propriamente veneziana ai Savii alle Acque con l'assistenza e consulenza del veronese Michele Sanmicheli: il maggiore architetto militare europeo del momento, che andava riempiendo con i suoi studi e con le sue realizzazioni l'intera Repubblica, della quale in ogni frangente si sapeva dimostrare uno degli amatori più appassionati e leali, e dalla quale veniva corrisposto con la più delicata confidenza.
All'indomani della Pace di Bologna (1529), che tentava di riparare od acquietare trent'anni di sconvolgimenti per la penisola italiana, la Repubblica si ritrova pressoché intatta nel territorio e splendidamente rafforzata sul piano psicologico; tuttavia l'angoscia d'essersi vista ben prossima al dramma supremo rinfocola nei suoi responsabili dubbi e paure. Pertanto se è "da laudar la diligentia cum infinita spesa che si è posta e si pone in la fortificatione de le cità et loci nostri da Terra e da Mar (...), è da laudar che si provveda a questa cità de Venetia, ch'è il capo de tutte le altre cità del Stato nostro et fundamento de la Republica nostra; et essendo questa cità da ogni banda, come si vede, apertissima, vi entrano navilii a suo piacer et véneno de longo fino a San Marco et piui oltra dentro la cità, senza esservi alcuno obstaculo" e questa è "cosa in vero degna de haverne bona consideracione per molti (...) casi de maior importancia che potrìa occorrer".
Eseguita l'ispezione di persona da parte dei Savii e del Sanmicheli, i quali non si sottraggono all'onere di percorrere in barca od a piedi l'intera laguna veneziana ed i luoghi contermini, è Michele Sanmicheli che redige e sostiene davanti al Consiglio di Dieci, nel gennaio 1535, la più magistrale ed insieme toccante relazione si possa, ancor oggi, leggere con profitto riguardo alla situazione fortificatoria offerta dalla natura e dallo stato dei luoghi lagunari. Relazione che meriterebbe qui rileggessimo nella sua interezza, che esaminassimo punto per punto, onde comprendere il valore ed il peso del problema fortificatorio ed onde commuoverci per l'affetto con cui l'impegno è assunto e perfezionato. Il grande architetto non può frenare l'emozione e prorompe in un'effusione di sincerità incontenibile, "havendome Vostre Excellentie (...) monstrato il core, io non posso tenermi che non li apra ancor io el mio core", e con la sicurezza, che non sa di retorica consolatoria, bensì di coscienza professionale altissima, garantisce che "tuto el sito di questa cità, posta in megio ( = mezzo) di questa palude, è fortissimo et tanto che se cognose per la man de Dio esser sta' fatto, et per opinion mia quasi inexpugnabile".
Egli suffraga questa "opinion" con una serie di esami, di estimazioni, di accortezze tattiche e strategiche del più ammirabile approfondimento. L'inespugnabilità del sito è assicurata rispetto ai nemici che usassero natanti di grandi dimensioni o con chiglia, perché questi non "potrìano navigar in questi canali" specialmente se privati delle segnalazioni che li indicano, nonché "per lo crescere et decrescere che fanno ogni sei hore le aque". Se poi i nemici venissero "cum navilii picoli, ogni poco contrasto li ributerìa". Inoltre, lungo il bordo lagunare, verso la terraferma, i "lochi fanno fortissima questa cità per li molti paludi" e canalicoli che sinuosamente li accompagnano. L'accoramento circonfonde la perizia tecnica, e chi sappia mettersi in sintonia con l'autore e con la realtà che illustra, quasi udrà la voce spezzata nella perorazione e nella preghiera: Michele Sanmicheli impetra (e, bisogna riconoscere, ben ascoltato) per la sopravvivenza della laguna, come fosse una propria personale ragione di vita. "Quello veramente che le hanno da pensar et da metterli tuti li spiriti, la mente e cor suo è (...) far sì che questa palude [cioè laguna] stagi in li termini che la si trova al presente, et che non se atterri piui o, per dir meglio, che l'atterrar de quella se vadi differendo quanto piui se possa" col "tenir cavada cum la zappa et badil, ché li altri inzegni sono chimere: la zappa et badil è la vita di questa palude (...), et essendo le acque de questa palude le sue mura, per amor de Dio Vostre Signorie Excellentissime fàcino quel medemo, che le hanno fatto in le sue Terre" per assicurare l'efficienza di quelle mura cittadine. Vogliano perciò non intermetter de "andar scavazando le velme et dar il corso suo a le aque (...) cum la vanga et il badil, (...) tenir cavadi li canali" e divertir in altro luogo interrimenti e "scoazze".
Al sistema delle acque lagunari, cioè alle mura di Venezia, Michele Sanmicheli vuol donare in più almeno un caposaldo e crea, assieme ad Antonio da Castello, quell'assoluto capolavoro dell'arte fortificatoria di tutti i tempi che è il Forte di Sant'Andrea del Lido. Se abbiamo sostenuto che la fortificazione, salvo quella voluta per "gioco", è sempre architettura esclusivamente funzionale, Sant'Andrea del Lido lo è in modo supremo. Con gioia dello spirito possiamo ancora fortunatamente godere e visitare questa bellezza cristallizzata in un monumento della paura; esso è pressoché intatto, seppur con acciacchi notevoli, che esigono cure grandi ed attente e, soprattutto, tempestive per il buon nome della nostra civiltà. È convinzione meditata, non già furbizia retorica, osservare che ad ogni passo, nel percorrere questo Forte, stupore ed ammirazione ci invadono, perché questo monumento della paura non è nato per incuterla, per sopraffare, bensì per tutelare da essa valori irrinunciabili. Tale fortezza, nata a metà Cinquecento, quando ormai le artiglierie hanno raggiunto un livello che a Lepanto dalle galeazze veneziane predisporrà la vittoria dei Cristiani, è opera che rivela come punto di riferimento costante, nell'ideazione e nella realizzazione, l'artiglieria.
Per sottrarre il Forte all'impatto delle artiglierie navali degli aggressori non si ricorre tanto al fronte spezzato della cinta, poco necessario in un braccio di mare discretamente protetto su entrambe le rive e sufficientemente angusto, anche per i fondali, onde impedire grandi manovre e robusti schieramenti, quanto piuttosto interrando ed abbassando gli elementi delle strutture sostanziali. Ma il tocco geniale sta tutto nel posizionamento delle batterie. Già Leonardo, eccelso inventore di tanto spesso irrealizzati progetti, aveva escogitato uno sbarramento di tiri radenti il pelo dell'acqua, prevalentemente pensando ai fossati perimetrali delle fortificazioni. Già i Sangallo avevano realizzato l'accorgimento. Sanmicheli, sembra per primo, l'applica in grande alla fortezza marittima di Sant'Andrea del Lido, onde poter dannèggiare il natante aggressore alla linea di galleggiamento e, per quanto possibile, addirittura nell'opera viva sommersa. Anche grazie alle attuazioni di Michele Sanmicheli, nella Repubblica e fuori di essa a servizio di Principi diversi, si consolida il convincimento secondo il quale il fenomeno fortificatorio possiede una capacità d'incidere su realtà e condizionare settori ben più estesi di quelli specificati dal dato politico, architettonico, tecnico-militare che vi si riferisce.
Quando Joan Battista Lion, nobile padovano, stila nel 1557 un suo "aricordo" per i Provveditori alle Fortezze, testimonia, circa l'incidenza della realtà fortificatoria sulla mentalità generale e sui modi del vivere insieme, un atteggiamento sì personale, ma anche comune ad un'area ben più dilatata di soggetti coinvolti. Il nobile padovano, convinto che "questa veramente sacra et santa Republica avanza ciascun altro Principe di benignità et de amorevolezza verso li suoi sudditi, non senza ragionevol invidia de' populi suggetti ad altri (...), considerando massimamente con quanta humanità et gratitudine" Vostre Signorie Excellentissime, Signori Provveditori alle Fortezze, "riconoscano le bone opere fatte in loro servitio", si offerisce e promette di mostrare "chiaramente et apertamente che (...) nella fortificazione di Padoa (...), finalmente (...) ridotta in termine che quasi ogn'uno la tiene per la più secura forteza che sia in Italia, sono tali et cossì fatti defetti, che da qualche occulto nemico di questo Stado la può con molta facilità esser occupata, et questo sinistro accidente potrìa occorrer molto più in tempo di quiete et di pace che di guerra".
Ci interessa assai poco il giudizio negativo circa la sussistenza dei difetti denunciati emesso da Michele Sanmicheli, poiché egli ritiene che in un sistema di normali controlli i paventati stratagemmi dei nemici siano irrealizzabili. Ci commuovono solo parzialmente le lodi per i consueti meriti attribuiti al Veneto Governo, pur convinte, ma su ben altri fondamenti d'azione documentabili. Ci obbliga, invece, a riflettere, e non superficialmente, la circostanza per cui un siffatto comportamento si manifesti in un nobile padovano, di assai cospicua nobiltà, e che non abbiamo ragione di pensare come particolarmente filoveneziano. I nobili non-veneziani, lo si ricordava già, e quindi pure i nobili padovani, non sono mai, nell'assoluta maggioranza, né teneri né affezionati verso il Governo Veneto, e così per quattro secoli. Se, quindi, un nobile padovano si dichiara in questi termini e su questo argomento, non per personale ambizione di maggiore notorietà od autorità, né per avidità di guadagno (il richiamo alla generosità sembra piuttosto rilevare una qualità morale che non postulare una ricompensa), è lecito arguire che il problema della comune incolumità è tanto sentito come fondamento di una corresponsabilità diffusa e favorita, da far probabilmente superare (né solo in questo gentiluomo) inveterate disposizioni mentali, almeno per questa materia.
Il nobile padovano, forse troppo pessimista nei riguardi delle capacità di controllo e d'attenzione dei Pubblici Rappresentanti e troppo ottimista sulla sottigliezza ed audacia di previsti nemici, può aver non convinto gli esperti dal punto di vista tecnico, ma resta, anzi è, pur sempre espressione significante circa lo stile di vita, anche interiore, di una civiltà: quella veneta. Joan Battista Lion è voce attendibile perché voce dei corresponsabili della difesa, specialmente attenti (in quanto prime eventuali vittime dell'inefficienza di quella), vale a dire voce dei destinatari delle opere difensive, voce di coloro cioè, che di quella sperata sicurezza fruiscono, e che per questo sono i piú interessati a vagliare, a desiderare, a paventare impegni, pubblici e privati sacrifici, esiti, difetti della politica fortificatoria e dei prodotti di essa. Le espressioni del nobile padovano, ed ancor piú le sue preoccupazioni, potrebbero suonare ad un odierno disincantato osservatore, ma estraneo a concretissime e tragiche situazioni di pericolo e di paura, patetiche o ridicole.
Ma nessun osservatore può negare ch'esse siano dettate da intensa, affocata passione, come nessuno può dubitare della sincerità con la quale Joan Battista Lion implicitamente valuta l'interlocutore cui si palesa. L'offerta del nobile padovano sta lì a confermare che qualsivoglia fortificazione è per il Governo nucleo potenziale di pericolo, quando non sia vivificata dallo spirito dei suoi abitanti, coscientemente omogeneo con quello del Governo medesimo. Grazie alla tensione interiore emergente dall' "aricordo" di Joan Battista Lion possiamo veramente intendere che qualunque impegno per esorcizzare la paura, dall'interno come dall'esterno dei suoi "monumenti", se può forse apparirci patetico, non potrà però mai sembrarci ridicolo, perché esso nasce da quelle stesse apprensioni integralmente umane, che vorrebbero sopire l'uguale prepotente angoscia, patita dall'inferma natura di ciascuno di noi. Attraverso Joan Battista Lion, gentiluomo veneto del Cinquecento, abbiamo riconfermata la triste certezza che fino a quando l'uomo vivrà (come vive) nel timore e tremore, anche i castelli e le fortezze ed i luoghi murati ci aiuteranno, con la loro dura concretezza, a capire, a temere, a compiangere gli uomini che quelle paure impongono, e gli uomini che da quelle paure sono schiacciati: così nel Veneto come in qualunque parte del mondo, e di ieri e di oggi.
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