Confusione, caos, entropia. Sono questi gli ostacoli che troppo spesso, oggi, incontra l'operazione artistica. Il pittore può scartare, ordinare e, quindi, ricreare. Ma il fotografo?
Domenico Casarotto sa perfettamente che il click non può essere qualcosa di estemporaneo, di capriccioso; ma non dev'essere nemmeno il frutto di una sorta di allestimento sofisticato.
La purezza, cioè l'essenzialità dell'immagine, occorre ricercarla con pazienza, studiarla da lontano, inseguirla con fatica, magari a costo di continui "appostamenti" come fa un cacciatore. Soltanto dopo - ed è spesso un giro di pochi minuti, di pochi secondi - può capitare il miracolo. La tecnica diventa uno strumento, niente più che uno strumento: quel che conta è l'intuizione unita alla programmazione. Come diceva Verlaine "La poesia si coglie o non si coglie". Per il fotografo non ci sono sotterfugi, malizie, furberie. Io che ho negli occhi (e un po', ormai, nel sangue) la pittura, ho sempre diffidato della fotografia. C'è in essa, troppo spesso, qualcosa di superfluo, di pletorico: quindi una rigidità estetica. Man Ray ha cercato di arrivare all'osso; ma dietro di lui c'era la dissacrazione surrealista, non
l'essenzialità lirica.
Casarotto, più che Man Ray, ama Ansel Adams; e lo si capisce. Egli cerca la purezza del paesaggio: mira a quella certa "magia" che è dei grandi pittori.
Perché tratteniamo il fiato di fronte ad un Giovanni Bellini o ad un Piero della Francesca? In loro il mondo fenomenico è liberato da ogni sbavatura, da ogni scoria: si presenta con una sorta di aurorale stupore, come qualcosa di nuovo e, nel contempo, di eterno.
Ecco quindi, per me, lo stupore e subito dopo l'ammirazione (ma che dico? l'entusiasmo) di fronte alle foto di paesaggio che Casarotto, via via mi ha mostrato nel suo studio vicentino.
Paesaggi? Casarotto mi parla dei suoi lunghi viaggi in Toscana, in Basificata, in Grecia, e magari più lontano, alle Canarie; mi racconta delle sue spasmodiche attese di quel certo momento di luce; mi parla del suo metodo di riduzione visiva dell'immagine, cioè del cogliere un particolare "significante" per quindi localizzarlo, dilatarlo, dargli nuova vita.
"Il bello è lì in fondo, ma ancora non si vede; o meglio lo vedo solo io. Devo scovarlo, frugarlo col teleobiettivo, puntarlo implacabilmente". Ma aggiunge "Quando parto, so quello che devo trovare". In realtà Casarotto appare mosso da una Kunstwollen ossessiva: una volontà feroce di ricercare la bellezza nel mare caotico dei fenomeni visivi, puntando proprio sul tema più generico e fuorviante: quello del paesaggio.
S'intenda: paesaggio ad ampio respiro, non ricerca del "particolare".
Ciò significa, appunto, armonia, equilibrio, congruenza; in altre parole classicità.
Il paesaggio, per Casarotto, diventa il campo magnetico in cui si coagula il suo desiderio di ordine, ordine anzitutto tettonico, strutturale, quindi anche biologico. Ecco il prato sulla collina che mostra le stirature del solchi, come un velluto mosso da dita gentili; ecco la pietraia che frantuma la luce e la convoglia verso un approdo di scansioni solenni; ecco la cupola blu d'una chiesa ortodossa che fa da quinta alle screziature sul dirupo lontano; ecco le rughe, le sottilissime crepe, i buchi misteriosi nel cratere d'un vulcano; ecco le nette partizioni di luci e di colori sul campo di stoppie, quasi incastri e chiasmi assoluti ; ecco l'albero che proietta la sua filigrana sottile sull'erba cangiante... Pittoricismo? In un
certo senso sì; ma a livello non solo di alta tecnica fotografica, ma di straordinaria sensibilità.
I rapporti tra pittura e fotografia sono sempre stati, da un secolo e mezzo a questa parte infidi e burrascosi, ipocriti e nevrotici. Talora ci sono stati accostamene quasi congiunzioni; talaltra stacchi e incomprensioni. Ma un artista - un vero artista - coglie la cultura del suo tempo e tende sempre a trasporla sul piano universale.
Vedo queste foto "magiche" di Casarotto e, quasi in controluce, mi appaiono i grandi esempi di una pittura che ha segnato la storia della civiltà europea: una pittura che ha visto il paesaggio soprattutto da un versante romantico, di abbandono sentimentale ma anche (perché no?) di armonia classica. Mi viene subito un nome: il Domenichino nei primi anni del seicento. E poi altri soprattutto nell'ottocento da Turner a Friedrich.
Il paesaggio diventa il luogo di un ordine interno delle cose, dove si attua l'aureo detto della "reductio ad unum".
Anche in Casarotto la ricerca dell'unità è fondamentale: unità come
accordo tra le parti, colloquio armonico, ricerca di perfezione. Ancora una volta, come al tempo di Luca Pacioli, arte e matematica trovano un punto d'intesa. Nella fotografia (e specie nella fotografia di paesaggio) cioè è reso ancor più difficile dalla non totale flessibilità dello strumento.
Ma Casarotto ha questo slancio fermo e solido che lo porta sulle soglie del mistero naturale senza turbare la realtà dei fenomeni, cioè senza scendere a sofisticazione o, peggio, ad inquinamenti dell'immagine.
In margine ad un suo disegno Albrecht Durer ha annotato, mezzo millenio fa: "Che cosa sia l'arte nessuno lo sa". Ma ci sono momenti, come di fronte alle più belle foto di Casarotto, in cui si intuisce la qualità di questa strana scintilla che s'accende ogni tanto. Basta quel un piccolo atto d'amore tra forma e colore, al di la' della collina lontana, magari un minuto prima che il sole tramonti e la scena ridiventi buia.
PAOLO RIZZI Venezia, dicembre 1996
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