La curiosità di conoscere le fisiche fattezze dei grandi della storia e dell'arte è sempre stata viva e costante: e legittima, io credo, a dispetto delle obiezioni che potrebbe suscitare.
Ma consideriamo il Palladio.
Nel proemio al primo de "I quattro libri dell'architettura" dati alle stampe all'età di sessantadue anni, dopo lungo travaglio di elaborazione, pei tipi di Domenico de' Franceschi a Venezia nei 1570, egli confida ai contemporanei e ai posteri, un letterario, ma toccante e vero, autoritratto dell'anima: "di me non posso promettere altro che una lunga fatica, e gran diligenza, et amore, ch'io ho posto per intendere et praticare quanto prometto". Che era il sogno di restituire all'attualità del suo tempo ma ad ammonimento anche dei tempi futuri, negli spazi dell'architettura, la vagheggiata e indefessamente perseguita "vera bellezza, e leggiadria degli antichi". I lineamenti della biografia di Andrea, in effetti, disegnano il profilo di un "huomo il quale non solo a sé stesso deve essere nato, ma ad utilità anche degli altri"; ed il disinteresse del maestro, pur reputato e richiesto da prestigiosi ambiti di committenza, verso ogni vantaggio pratico appare completo e sconcertante.
L'attaccamento profondo alla famiglia, all'amore ai figli (e mai lo ripagheranno Leonida e Orazio, i prediletti: l'uno assassino; l'altro pavido e delatore) mai lo spingeranno a cercare ad ogni costo la sicurezza della proprietà, la solidità economica, l'affermazione sociale strepitosa. Si spegnerà, se non povero, godendo di una condizione assai modesta: e ben si capisce, dunque, che una personalità tanto schiva, e tutta ridotta alla propria missione di architetto - annullata, verrebbe proprio da dire, nell'operare - rifuggisse da qualsivoglia esibizione esteriore di sé: dal compiacimento, ad esempio, consueto viceversa a tanti artisti che all'epoca sua pur appartenevano, di far raffigurare le proprie fattezze fisiche per rimetterle all'ammirazione della posterità.
La più autorevole fonte antica, le "Vite de' pittori, scultori et architettori" pubblicate dal Vasari nel 1568 assicura attendibilmente (essendo Andrea ancora in vita e dunque in grado di controllare la veridicità dell'asserzione) ch'egli sarebbe stato ripreso da Orazio Flacco, versatile ritrattista veronese (è possibile, anzi, che lo storiografo avesse veduto il quadro durante il soggiorno a Venezia nel 1566 presso il maestro - in casa Contarini - quando lo visitò). Null'altro; e quel solo documento iconografico testimoniato, già doveva essere introvabile all'avvio del '700 quando, con l'iniziativa editoriale promossa a Londra a partire dal 1716 da Giacomo Leoni, gli studi sul maestro assumono incremento fervido su raggio europeo. E appunto il Leoni, nell'indisponibilità di ogni referenza (l'esecuzione di una statua da porre sul terzo ordine della scenafronte del Teatro olimpico votata dagli Accademici il 24 aprile 1582 - rimpiange a buon diritto Camilio Boito - "quando la memoria del volto e della persona di Andrea era in tutti vivissima", era stata inopinatamente sospesa poco dopo) deciderà di far imprimere, sull'antiporta del primo dei suoi volumi, un ritratto immaginario che, tuttavia, contrabbanderà per buono. Al Veronese, infatti, ne attribuisce la matrice pittorica: ma noi sappiamo, oggi, che l'orgoglioso ed eroico personaggio imberbe presentatoci era stato inventato da Sebastiano Ricci il cui disegno, approntato per l'occasione, dal bulino del Picart era stato quindi inciso.
Anche Lord Burlington, dando alla luce nel 1730 i rilievi palladiani in suo possesso de "Le fabbriche antiche", dovrà ricorrere all'effigie fantastica, e anch'essa imberbe, predispostagli da William Kent, di un viso assorto e pensoso stavolta, che lo scultore Michael Rysbraeck riprodurrà in un busto ora a Chatsworth e in una statua a figura intera che si conserva a Chiswick.
Ma il desiderio di vedere, conoscere i tratti veritieri del volto di chi era ritenuto e proclamato ormai il sommo degli architetti, por mano sulla vera imago, doveva esser ansioso, frenetico. Lo Smith, console britannico a Venezia e animatore di un circolo dove il verbo palladiano era oggetto di fervido dibattito, si lascerà volentieri ingannare dall'iscrizione posticcia - forse deliberatamente confezionata da un astuto falsario che ne conosceva la debolezza - apposta su un ritratto (oggi ad Hampton Court, e lo si assegna al pennello del Licinio) rappresentante un giovane reggente un compasso: la farà riprodurre su rame da Pietro Monaco con l'intento di corredarne l'ardito fac-simile de "I quattro libri" che stava approntando. Eppure il tanto perseguito documento, sicuro e rassicurante, esisteva ed era accessibile: ne si trattava del dipinto di Orazio Flacco di vassariana memoria. Sará Francesco Muttoni, sempre attento ed accorto, a riconoscerlo presso i Capra, alla Rotonda, e non esiterà a farlo incidere dallo Zucchi pel terzo tomo della sua monumentale fatica palladiana uscito a Venezia, editore il Pasinelli, con la data 1741.
Da allora in avanti, l'"elegante tavoletta antica" rimarrà referenza esclusiva e non più dubitabile per chiunque le vere fattezze dell'architetto vorrà esibire: pel Mariotti e, di nuovo, per lo Zucchi in apertura del volume del Montenari sul Teatro Olimpico (1749); per l'Arnaldi nell'ingresso del suo trattatello Delle Basiliche antiche (1769); per David Rossi e il Ravenet nell'antiporta del I° tomo delle Fabbriche palladiane di Ottavio Bertotti Scamozzi (1786).
E via via: sino all'abbondante tradizione ottocentesca culminante nel busto sbalzato, su commissione del Canova, da Leandro Biglioschi nel 1813 per la galleria dei "ritratti in marmo d'uomini chiari nelle arti e nelle scienze" voluta dai virtuosi del Pantheon a Roma; e nella statua scolpita da Vincenzo Gajassi, alzata nella "piazzetta sul fianco della Basilica" il 5 agosto 1861: e di recente sottoposta a maquillage.
L'ultima notizia sulla "elegante tavoletta" fonte di tanta tradizione, e autorevole fonte (ma, in realtà, una tela) risaliva ai 1846 allorché l'apprendiamo passata in proprietà alla vicentina famiglia Conti.
La si era pensala, dopo, ma a torto, dispersa: sinché, nell'occasione delle manifestazioni pel quarto centenario della morte di Palladio nel 1980 sapientemente governate da Guglielmo Cappelletti, Angelo di Valmarana la segnalava, intatta, presso la propria villa berica "ai Nani", consentendone, con grande liberalità, l'esposizione alla mostra dedicata, in palazzo Leoni Montanari della allora Banca Cattolica del Veneto (ora confluita in Banca Intesa), a L'immagine, il testo, la città (nel cui utilissimo catalogo le su esposte notizie sull'iconografia palladiana si ritroveranno in più ampia articolazione).
Non di gran qualità pittorica si presenta il piccolo, e pur prezioso, dipinto, che raffigura il maestro a mezzo busto e nell'atto di reggere con la mano destra un compasso e un cartiglio con la scritta "Andrea Palladio architetto vicentino 1576". Il segno rimanda alla mano di Gianbattista Maganza, il Magagnò, ma ignoriamo per qual circostanza l'estroso personaggio avesse deciso di eseguire l'opera. Amichevoli rapporti intercorrevano tra Andrea e Giambattista, e sarà stato, magari, il gusto scanzonato da parte del pittore-poeta di far la sorpresa di un dono. Potè ammirare il quadretto, prima della sua provvisoria scomparsa (o ne vide la copia fedele che Antonio Magrini, il gran palladianista del secolo XIX, ne aveva fatto trarre), Camillo Boito; ci indugio nel discorso (assai fine e penetrante, e che andrebbe ristampato) pronunciato per le celebrazioni del 1880 "Mostra Palladio nella età matura". Barba piuttosto corta e ricciuta, baffi abbondanti [..] una corona bassa di capelli alla maniera fratesca affatto nudo l'alto dei capo, le orecchie un po' grandi; la fronte solcata da tre rughe, il naso diritto con le narici ampie, gli occhi spalancati, fissi, come d'uomo che mediti senza passione [...]. L'abito è da persona modesta, da artefice, l'espressione della faccia ha un po' dell'impacciato [...]. Il ritratto e di quelli de' quali si dice: deve somigliare".
Resta che la tela (o le sue derivazioni grafiche e plastiche) consentiva e consente - s'è detto - un non labile riferimento per la ricerca, entro l'universo figurativo del '500, d'altri, eventuali reperti dell'iconografia palladiana.
Ricerca, in verità, che si constata talvolta intemperante e talaltra attentamente mirata e inzeccata, se, infatti, può lasciar perplessi il riconoscimento del volto di Andrea in uno dei "profeti" plasmati dal Sansovino per le formelle della bronzea porta della sacristia di S. Marco a Venezia, o nella corrucciata e massiccia figura scolpita in pietra da Bartolomeo Ridolfi per villa Pojana a Pojana Maggiore e serie domande si impongono se il quadro rintracciato alla Rotonda dall'Isermeyer sia davvero quello riferito dal Vasari al Flacco: resto convinto che l'architetto s'abbia da identificare nell'inquietante ritratto (ora nei Musei reali di Copenhagen) realizzato dal Greco durante il suo secondo soggiorno veneziano, dopo il 1572 (i due si incontrarono, è certo: ed è il Greco stesso, in certi suoi appunti, ad adombrarlo). Il fatto si è che, comunque la disponibilità della vera imaqo continua a costituire occasione aperta di controllo, di ricerca, di scoperta: ed e sensazionale quella fatta da Fernando Riqon, or sono tre lustri, nei depositi del Museo di Vicenza: che abbia consentito a me di rendere pubblico un ritrovamento ch'è comunque suo, spetta alla sua attitudine di Liberare signorilità.
Siamo innanzi ai ritratto quanto mai vero di Palladio. Volto scavato e quasi affilato dalla stanchezza della "lunga fatica" spesa ad "intendere et praticare" una stupefacente ed incrollabile promessa; sguardo non drizzato allattante, ma assorto a contemplare invisibili, e ardue, immagini concepite dalla mente e, però, insieme, turbato da un presagio di morte.
Indecifrabile è, purtroppo, a dispetto della accurata pulitura, effettuata (per cura encomiabile dell'Amministrazione Provinciale di Vicenza che, con atto quanto mai opportuno ed apprezzabile, l'ha dedicata a Guqlielmo Cappelletti), il frammento di un'iscrizione sul bordo inferiore del quadro. Ci avrebbe, forse, raccontato i motivi di una genesi, di un'occasione, di un'opportunità, per adesso misteriosi. La qualità stilistica è di alta temperatura e rimanda, secondo la mia ferma convinzione, a Francesco da Ponte in una congiuntura di particolare felicità espressiva. Si erano magari incontrati per tempo, il pittore e l'architetto: probabilmente all'inizio degli anni settanta a Vicenza, Consuetudine cordiale, malgrado il divario dell'età che poteva ben essere compensato da reciproca istintiva simpatia (cresciuta, chissà, sulle profonde differenze caratteriali: lunatico e saturnino l'uno, imperterritamente sicuro del suo destino l'altro), dovettero stabilire allorché si trovarono coinvolti assieme, ciascuno per le proprie competenze, nel 1578 in Palazzo Ducale a Venezia, devastato l'anno avanti dal fuoco. A quella congiuntura, e a quell'anno, io stimo sia da riferire lo stupefacente ritratto: che costituì una delle cose di maqqior spicco, se non tout court la più strepitosa, tra quante furono esposte nella bellissima rassegna di iconografia palladiana voluta dalla allora Banca Cattolica del Veneto nelle vetrine di Contra' del Monte della Banca stessa, in occasione del trentennale del Centro Internazionale di studi di Architettura a Palladio intitolato.
Ad attestare la propria presenza al progetto VICENZA SERENISSIMA. Una nuova architettura, una nuova città (1404-1630), Banca Intesa ripropone la benemerita iniziativa di quindici anni fa, e, ancora, nelle vetrine della sede di Contra' del Monte. La rassegna di immagini, per se stessa già di gran significato, risulta arricchita dalla straordinaria Veduta ideale di Vicenza con celebrazione allegorica di Andrea Palladio, dipinta da Francesco Zuccarelli intorno ai 1746 e, da poco, entrata a far parte delle collezioni dell'Istituto bancario: non solo un capolavoro pittorico in assoluto, ma il primo, e più eloquente, manifesto del destino urbano di Vicenza come Città del Palladio.
Bibliografia
M. Precerutti Garberi in Arte antica e moderna nelle collezioni della Banca Commerciale Italiana, vol. IIi (Dal Quattrocento al Settecento), Skira editore, Milano 1998, pp. 215-224; M. Precerutti Garberi in Dal Quattrocento a Boccioni. Aspetti noti e poco nelle, collezioni della Banca Commerciale Italiana, Skira editore, Milaino 2000, p. 65, n. 14; R. Pancheri in Il Neoclassicismo in Italia. Da Tiepolo a Canova, catalogo della mostra, Skira editore, Milano 2002, n. I.34, pp. 417-418